Che siano fruttati, speziati, dolci o amari, i cocktail di sicuro sono diventati un intricato rituale nella vita di molti di noi. Sono così popolari che spesso prevedono anche un’opzione per chi non assume alcol, e, se bevuti nel posto giusto, sono ugualmente gustosi.
Questa settimana abbiamo intervistato le fondatrici di Aperture, un bar specializzato proprio in questi mix. Per chi non ne è esperto, però, quello dei cocktail può sembrare uno strano universo a parte, difficile da capire a fondo.
Cos’è, quindi, un cocktail?
“Il cocktail è un insieme di prodotti, ma per farlo basta averne due”, ci ha detto Francesca Pilotto, una delle due ideatrici di Aperture. Secondo questa definizione, i cocktail sono delle: “Bevande alcoliche costituite in genere da una miscela di vermut o vini da dessert, a volte anche di champagne, oppure succhi di frutta, con liquori forti, dolci oppure secchi.”
Queste bevande, quindi, possono essere composte da qualsiasi cosa sia bevibile. Alcuni addirittura sono fatti con le uova: è il caso del Whisky Sour o il Vodka Sour.
Questi cocktail sono addirittura riconosciuti dall’IBA, l’associazione internazionale dei bartender, che dal 1951 si impegna a mantenere salde le relazioni tra i suoi membri e a conservare alti gli standard dei loro prodotti in tutto il mondo. Ogni anno annette e elimina cocktail dalla sua lista ufficiale, e regola i vari standard che questi devono mantenere, come il dosaggio dei vari ingredienti.
La IBA ha una settantina d’anni, ma i cocktail ne hanno molti di più. Si narra, infatti, che il primo cocktail risalga al 1840 negli Stati Uniti quando, durante la guerra di Secessione, una locandiera di nome Betsy Floyagan miscelò alcuni distillati per dei soldati americani, creando quindi qualcosa di completamente nuovo.
Ora, con la loro lunga storia, i cocktail più famosi rientrano in categorie strette: la prima classificazione può essere fatta in base alla quantità di alcol presente al suo interno. I long drink, quindi, vanno da 13 a 20 centilitri, i medium drink da 10 a 13, e gli short drink dai 7 a 10: è il caso dei famosissimi shottini.
Da non esperti quali siamo, si direbbe che la prossima classificazione logica sia quella per gusti: invece, i cocktail vengono classificati anche in base all’orario in cui vengono bevuti e alla loro presentazione. I cocktail pre dinner sono i più facili da distinguere, soprattutto per chi viene dalla terra dello spritz: sono i classici cocktail che vengono serviti all’aperitivo, ideati per stimolare l’appetito, e solitamente sono secchi o effervescenti con retrogusto amaro. Ci sono, poi, i cocktail after dinner, che spesso hanno funzione digestiva, e gli anytime, serviti a qualsiasi ora del giorno e in genere più dissetanti.
La classifica in base alla presentazione, invece, li divide in quattro categorie: liquidi, che siano con o senza ghiaccio, cremosi, quindi contenenti un ingrediente che li addensi, come le uova, frozen, frullati col ghiaccio come il sorbetto e pestati, con ghiaccio tritato grossolanamente.
Infine, i cocktail possono essere classificati in base ai loro componenti, che in linguaggio tecnico fanno parte della loro struttura. Secondo Wikipedia, quest’ultima classificazione si può ulteriormente suddividere in classe e stile.
Prendiamo ora ad esempio e analizziamo il cocktail più famoso dalle nostre parti, così famoso da essere già stato citato in questo testo: lo spritz. Secondo le classificazioni menzionate, lo spritz è considerato un long drink per la presenza di alcol tra i 13 e 20 centilitri, pre dinner e liquido, per la consistenza con la quale viene presentato. Inoltre, possiamo dire che la sua tecnica di miscelazione è lo stirring, quindi mescolato, appartiene alla classe dei cocktail franco-italiani, caratterizzati dalla presenza di vino, spumante o vermouth e, infine, è della famiglia degli sparkling, frizzanti come il Prosecco che è il suo ingrediente principale.
Ci sarebbero altre mille informazioni da aggiungere sul vasto mondo dei cocktail, ma per ora ci lasciamo così: al prossimo spritz!