Le scelte che vanno prese di petto, le occasioni che necessitano di essere colte, la vita che s’impone senza chiedere il permesso. Vivere senza riserve per risuonare eternamente nella memoria di chi osserva. Dagli esordi sino ai Mondiali, Dino Baggio si racconta con la franchezza di chi con sguardo sognante si ammira e con oggettività sa mettersi in discussione. In esclusiva per noi, uno dei più grandi talenti della serie A degli anni 90, orgogliosamente padovano!

Dino: “Ho iniziato nel settore giovanile del Tombolo, dai pulcini, quando avevo sette anni. Mi sono presentato in anticipo, a sei anni e mi hanno rimandato a casa perché ero troppo piccolo. Sono rimasto in quella squadra fino ai dodici anni e mezzo. Abbiamo anche vinto un campionato esordienti e, durante un torneo, vinsi anche il titolo di capocannoniere. Dopo di ché, da quel momento sono stato seguito da Bruno Sola, che lavorava per il Toro. Mi ha proposto di partecipare a due provini, uno a Villafranca e uno a Torino. Mi sono presentato ad entrambi e, con tre goal in andata e due al ritorno, mi hanno chiesto di restare. Io dovevo ancora finire la terza media e, volendo concludere, ho proposto di terminare la scuola e ripresentarmi a ciclo finito. La proposta non fu accolta: se mi fossi fermato avrei sicuramente perso l’occasione. Con il mio ex allenatore, Cesare Crivellaro, abbiamo deciso di partire da quel momento, senza aspettare. Sono entrato al Toro e, solo in quell’anno, segnai novanta goal. Si sono innamorati tutti”
“Ero un bambino minuto. Tutto il settore giovanile si è innamorato. Da quel momento è iniziata la mia storia. Sono stato dieci anni con il Toro e, devo dire, il mio cuore è rimasto là. Lo condivido con il Parma, dove ho giocato per sette anni. Lì c’erano le sette sorelle, il che significa che tutte le squadre erano forti. Sono stati dieci anni davvero meravigliosi. Ho sempre lottato per vincere lo scudetto, per vincere il campionato. Ora seguo poco. Il calcio attuale mi ha stancato. Allora era più familiare, c’erano molti più italiani che facevano squadra, i presidenti venivano tutti i giorni a vedere gli allenamenti ed erano sicuramente più interessati. Adesso è tutto più industriale, almeno sembra che sia così: si tratta solo di numeri, ci sono molti stranieri, i presidenti vengono dall’estero e arrivano per investire, non di certo per perdere soldi. Una volta era diverso. Ho mantenuto i rapporti con i miei ex compagni, ogni tanto vedo gli ex del Parma e ci capita di fare anche qualche evento di beneficienza insieme. Se penso ai momenti migliori della mia carriera mi vengono in mente le vittorie di Coppa UEFA. Ho sempre fatto goal sia all’andata che al ritorno, ho ancora il report dei goal segnati. Poi, ovviamente, il campionato USA del ’94, i mondiali del ’94. I mondiali, un ricordo iconico. Quando siamo arrivati in finale eravamo stanchissimi, abbiamo sempre giocato i supplementari ed eravamo in 9. I brasiliani erano in 11 e non hanno mai giocato i tempi supplementari. Il clima da loro era più fresco, più rilassato. Noi, invece, abbiamo dovuto viaggiare, adeguarci al fuso orario. Mi ricordo che pensavamo: “Se finisce 0 a 0 facciamo il miracolo, andiamo ai rigori e vediamo cosa succede”. Sappiamo com’è andata (ha vinto il Brasile)”
“Le mie sfide? Oggi ho due figli che giocano e riconosco che sia molto più difficile di quanto lo fosse allora. Noi avevamo qualcuno che ci seguiva, che ci preparava, che ci guidava. Nel settore giovanile si puntava su 4 o 5 giovani e li si cercava di mandare in prima squadra. Oggi non è più così: non si è, più di tanto, interessati alla prima squadra. Se c’è qualche ragazzo che, dalla primavera passa alla prima squadra, è un fenomeno. Oggi non è semplice. Se dovessi dare un consiglio ai giovani che vogliono vivere questo mondo direi di non mollare. Le difficoltà sono all’ordine del giorno ma, con un carattere forte e determinato, tutto è gestibile. Bisogna solo dimostrarsi determinati ad arrivare dove si vuole arrivare”
“Chi mi ha aiutato nei momenti di difficoltà? Gli allenatori mi hanno sempre seguito ed aiutato. Mi sono sempre trovato bene con tutti. Ho sempre ricevuto qualcosa in più, sia a livello motivazionale che umano. Quando a tredici anni giocavo nel Torino era molto difficile stare lontano da casa. In quel momento ho trovato una signora che, vedendomi con le valige, mi offrì un posto a casa sua. Ho trovato delle belle persone che mi hanno permesso di fare ciò che ho fatto, che mi hanno aiutato nel momento del bisogno. Se tornassi indietro forse farei qualcosa di diverso. Per esempio, ho avuto dei problemi con un arbitro durante una partita, ho fatto una cosa che non avrei dovuto fare: ecco, non la rifarei. Quella situazione mi è costata molto ed ho pagato solo io: soldi, gare di campionato, occasioni di giocare in nazionale. In quel momento non mi ha difeso nessuno. Se potessi tornare indietro, giocherei e basta, solo per il gusto di farlo. Allo stesso modo, penso che mi aprirei di più al mondo estero. Ricordo quando mi chiamò Vialli chiedendomi di giocare al Chelsea. Rifiutai per rimanere al Parma dove, comunque, non mi avrebbero ceduto dal momento che ero appena arrivato. Il Chelsea l’ho rifiutato diverse volte, per diversi motivi ma mi è sempre rimasto in mente. I tifosi in Inghilterra sono molto diversi: più calorosi. Anche le strutture sono incredibili”
“Sono sempre stato molto legato alle mie origini, nonostante abbia girato il mondo. Sono stato ovunque ma sono anche ritornato a casa. Mia moglie è romana e mi ha seguito nel mio percorso. Ho deciso di crescere i miei figli lontano dalla città, in modo tale da farli crescere in un luogo sano dove possano essere liberi. La città mi piace, indubbiamente. Ma il piacere di vivere serenamente nel proprio paese? Impagabile”
