Massimo Cotto passa per Padova e presenta insieme il suo libro – Il re della memoria – e la sua visione della vita e del mondo. Fortuna e pazienza vanno di pari passo, coinvolgendo l’uomo in trame di vita dall’infinita potenza narrativa. E chi le conosce meglio di lui le grandi trame umane? Uno fra i più importanti giornalisti radiofonici in Italia che, dopo una vita spesa a tramandare le vite delle più brillanti stelle musicali del panorama mondiale, decide di regalare al mondo il prodotto di tanta esperienza vissuta.

“Sono sempre stato molto affascinato dai triangoli, sia letterari che cinematografici. Credo che la vita sia dispari, il che fa un po’ ridere dal momento che credo nell’amore eterno – a due. Nonostante questo, molte delle cose che viviamo comprendono un terzo elemento: di minaccia o di disturbo, un’eventualità non compresa ma che si presenta. Mi piaceva che ci fosse questa sorta di incastro geometrico tra figure differenti. Un altro triangolo per me? La temporalità: il presente al centro e, a circondarlo, passato e futuro”
“Ariel è una persona che non è in grado di capire quale delle due donne sia perfetta per lui: una arriva dal passato e l’altra rappresenta il presente. Quale di queste incarni il futuro, non lo riesce a capire. La storia prende forma come un mosaico strano, allo stesso modo della nascita del libro stesso. È stato scritto diciott’anni fa. Mi sono seduto davanti ad un foglio bianco senza sapere cosa sarebbe successo, un sentimento che è perdurato fino a metà stesura. Fino a quel punto mi sono sentito insieme scrittore e lettore, incapace di prevederne lo sviluppo e la fine. Chiaramente sapevo cos’avrei voluto raccontare, non ne conoscevo ancora le dinamiche”
“A volte, quando si scrive, ci si reputa esseri onnipotenti e questo non è reale. La storia parte da te ma eccede, i personaggi appartengono a loro stessi e procedono con un certo grado di autonomia. Non volevo che la trama si sbrogliasse come una matassa attraverso le indagini, ho preferito che fossero i personaggi a guidare la scena. Quando questo accade, quando i personaggi hanno questo ruolo nella trama, non si può mai sapere se la descrizione degli eventi sia aderente alla realtà o se sia una loro proiezione mentale. E’ più da Hitchcock che da Agatha Christie: non ho voluto sviluppare il classico noir che segue le indagini di un commissario dal problema alla sua risoluzione. Alla fine Ariel decide che, nonostante i sensi di colpa, deve vivere, deve scegliere solo sulla base dei suoi sentimenti e dei suoi impulsi. Volevo che tutti i protagonisti, ad un certo punto, decidessero di vivere, di prendere in mano i loro anni, le loro esistenze, le difficoltà, i sensi di colpa, i rimorsi del caso. Volevo che le loro azioni esprimessero a pieno i loro desideri e volontà”
“Non ho mai fatto un sogno bello in tutta la mia vita, ho sempre avuto solo incubi dove uccido qualcuno, qualcuno uccide me e devo fuggire. Mia moglie pensa che sia la giusta risposta inconscia ad una vita fin troppo bella di giorno. Può darsi, scrivere significa aprire la porta all’inconscio. Ho scritto più di settanta libri di musica, non ho paura del foglio bianco o del dovermi confrontare con gli altri. Se, per quanto riguarda la musica, sento di potermi difendere qualora qualcuno abbia qualcosa da ridire, per quanto riguarda i romanzi è diverso. Nella narrativa è come trovarsi nudo di fronte al pubblico. Quando mi hanno avvisato che avrebbero pubblicato il libro, la mia reazione è stata negativa. Confuso, mi sono chiesto che cosa avrei fatto. Ho sessant’anni, ho più di quello che desideravo nella vita, faccio quello che ho sempre desiderato di fare: perché rischiare di intraprendere un percorso per cui qualcuno potrebbe sentirsi libero di riportarmi severamente con i piedi per terra?”
“Il passo successivo è stato quello di dover rileggere. Mi sono trovato abbastanza bene, dopo diciott’anni non mi sono ritrovato cambiato, più di tanto. Il giorno peggiore? Il giorno in cui sono uscito. Il giorno in cui il libro smette di essere solo tuo e diventa pubblico, degli altri. Con il tempo ho imparato a rilassarmi a riguardo. Ho appena vinto il premio Bancarella…È roba forte! E adesso mi è venuto in mente di scriverne un altro, cosa che prima avevo escluso categoricamente. Alla fine, la cosa che conta è raccontare delle storie e che, ovviamente, ci sia qualcuno ad accoglierle. Il libro è andato bene, anche se dovremmo tutti ripeterci un mantra: quantità non fa rima con qualità. Ci sono dischi che hanno cambiato la storia del rock e che hanno venduto duemila copie”
“Qual è il futuro della radio? La vecchia radiolina transistor è morta e sepolta. Bisogna indagare i metodi che i giovani useranno per ascoltarla, proporre un’alternativa giusta e soddisfacente. Credo che il potere della radio sia imbattibile. Tutti gli artisti che ho intervistato prima o poi mi dicevano la stessa cosa: il primo momento in cui si sono sentiti vivi e hanno capito che, in qualche modo, ce l’avrebbero fatta non è stato con l’uscita del primo disco, ma con la prima volta in radio. Per me questa è un’immagine meravigliosa, romantica. La radio è il miglior strumento per imporre nuovi talenti al mercato musicale. Forse dovremmo semplicemente essere già coraggiosi”
“Amo moltissimo le college radio, le radio universitarie, perché hanno una loro impostazione particolare, si devono rispettare delle logiche di mercato che vanno osservate. Ho la fortuna di lavorare per una radio che ha un solo competitor, Radio Freccia. Grazie a questo, riesco a trasmettere molto di quello che voglio io. Dovremmo catturare l’attenzione dei giovanissimi, quelli che oggi hanno tredici anni – la generazione Z. Con i ragazzi è, oggettivamente, molto difficile. Mio figlio ha sedici anni e, crescendo in questa famiglia, si è fatto l’idea che ill palco non sia un lavoro. Ad uno spettacolo a Genova, a palazzo Ducale – a quel tempo aveva quattro anni – ad un certo punto ha preso il microfono ed è salito sul palco dicendo: «Sono molto arrabbiato con la mamma». In quel momento, per lui, era come essere a casa. Vorrei che i giovani si accorgessero che questo è un lavoro, senza fargli rendere conto che gli stiamo andando in contro”
“Per capire cosa vuoi fare nella vita devi avere quella cosa che inizia per “c” e finisce per “ulo”. A me è capitato casualmente. A diciassette anni giocavo nella nazionale juniores di basket: l’unica cosa che vedevo era il pallone. Raggiungendo la palestra, ascoltavo la radio. Raccontavano una storia che non capivo e quando qualcosa non ci è chiaro abbiamo due possibilità: scappare o rimanere a cercare di comprendere. Ad un certo punto è partita Harmonica di Thunder Road di Springsteen, che non conoscevo. Solo dopo ho capito che la storia che lo speaker stava raccontando si basava sul brano che avevo appena sentito. Non c’è stato nulla da fare, io volevo fare quello nella vita. Sono arrivato ad allenamento e mi sono ritirato. Io volevo fare radio”
“Erano anni in cui non c’era niente, c’erano le radio ma private. Io vivevo ad Asti, a quel tempo. La combinazione perfetta? Aprirsi agli altri ed avere pazienza, sperando di venir baciati dalla fortuna. La fortuna è sempre presente. Mi è capitato di incappare in qualcosa di bello pur sbagliando strada. Sbagli, ti fermi ed è comunque meraviglioso. Non esistono delle regole precise, si deve solo dar voce alla propria passione, lasciarle ossigeno per svilupparsi. Forse mi trovo un po’ in disaccordo con le giovanissime generazioni. Mio figlio è una persona curiosa, meravigliosa – ogni scarrafone è bello a mamma sua. Legge un centesimo di quello che leggevo io alla sua età, anche se nulla è ancora detto. Tutto può succedere, magari in futuro leggerà la Bibbia in greco antico. Da qui fino alla fine dell’anno ho diciassette festival che dirigo o presento. Il prossimo libro uscirà postumo, se va così. Nonostante questo, sto facendo le cose che voglio fare. Siamo portando in giro Decamerock, che sta andando molto bene. A me le idee vengono in macchina e, anche oggi, me n’è venuta una mentre venivo a Padova. Sono stato molto fortunato, letteralmente baciato dalla fortuna. Posso semplicemente continuare a lavorare intensamente, come già sto facendo”
